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Uno dei più tragici, violenti, sofferti romanzi del secondo Novecento che torna, finalmente, dopo distorsioni politiche e ostracismi culturali, con la sua grande forza di opera letteraria. Siamo nel 1943, Marco Laudato, alter ego dell'autore, abbandona il seminario e torna al paese molisano di origine dove anni di conflitto hanno lasciato solo povertà e un senso di monotona inutilità quotidiana. I camion tedeschi che risalgono la penisola sono l'unica via di fuga verso qualcosa di nuovo, proprio quello che cerca un ragazzo di diciassette anni. Marco, senza avere alcuna coscienza politica, si ritrova in mezzo alla guerra civile che imperversa nell'Italia del Nord. È preso prigioniero prima dai tedeschi e poi dai fascisti, e finisce per arruolarsi nella Rsi per aver salva la vita. La crudeltà e la violenza della trincea, il disprezzo degli uomini, l'insensatezza dei combattimenti, persino l'incontro con il sergente Elia, strenuo sostenitore della difesa della patria, segnano il suo fermo rifiuto della guerra. Fugge quindi da un treno che lo avrebbe portato prigioniero degli americani in Africa. E ritorna al suo paese, ancora una volta. Marco è turbato dalla ferocia che ha vissuto, ma adesso è consapevole che la fedeltà agli ideali di patria e libertà non può coincidere con la brutalità delle armi. "Tiro al piccione", riconoscono i lettori più avveduti, è un grande romanzo di guerra come possono esserlo "Addio alle armi! di Hemingway e "Il partigiano Johnny" di Fenoglio. E, come scrive Anna Maria Milone nella postfazione, l'importanza di proporne oggi una nuova lettura «sta nel valore che hanno l'indipendenza del pensiero e la libertà dai luoghi comuni».